domenica 10 giugno 2012

La mia prima esperienza premorte.


Avevo 6 anni ed ero entrato in ospedale per un intervento così banale da essere considerato di routine. Ma qualcosa andò storto. Per cause che ancora oggi restano poco chiare, il mio fisico sviluppò una reazione allergica all’anestetico. Andai in coma per 36 ore e l’intervento non fu mai eseguito.

Vissi per la prima volta quello che oggi viene denominato un fenomeno di Near-Death Experience (NDE) o più comunemente stato di premorte e che appunto si verifica nei soggetti che, dopo aver subito un trauma fisico o una malattia terminale, sono sopravvissuti.

Numerosi sono gli studi e le indagini sulle esperienze premorte: non è un fenomeno così limitato, anzi. Il 15% dei pazienti rianimati dopo un arresto cardiaco, malgrado un encefalogramma piatto, racconta di esperienza premorte. Queste crescenti testimonianze hanno portato medici, studiosi e scettici a studiarne cause, contenuto e dinamiche. Ciò che si può concludere è che tutti i racconti si assomigliano molto, indipendentemente dal sesso, dall’età, dalla religione, dal livello di istruzione e da precedenti informazioni sulle NDE. L’esperienza classica è la visione di un tunnel con una luce bianca sul fondo, l’incontro con parenti o entità defunti, la visione della propria intera vita o di eventi futuri. Ma vi possono essere anche esperienze extracorporee (dette OBE, Out of Body Experience), con percezione del proprio corpo visto dall’esterno.

Durante la mia prima esperienza premorte, ricordo di essermi trovato nella frazione di un istante in un luogo sconosciuto, un lungo viale in fondo al quale riconobbi un signore distinto, vestito di scuro, accompagnato da un grosso cane nero, forse un alano. Non avevo paura, anzi vivevo la situazione con grande serenità.
In quello spazio fuori dal tempo vidi colori che non appartengono a nessuna scala cromatica esistente, vivi, pieni, luminosi e udii suoni come di musica, che sapevano scuotermi l’animo da dentro, in un turbinio di gioia e nel contempo di pienezza che nella mia esperienza corporea non avevo mai vissuto prima.
Fui rassicurato da questo signore che sarei dovuto tornare, che non era il mio momento. Questo mi tranquillizzò anche se di là la vita di tutti i giorni mi appariva ormai come qualcosa di veramente relativo, una sorta di gioco visto dall’alto o comunque da fuori, qualcosa per cui non valeva la pena disperarsi. Mi dissero anche quale sarebbe stato il mio scopo una volta che fossi tornato e che la mia vita vera sarebbe iniziata al mio ritorno.
Poi nel momento in cui toccai il cane, mi risvegliai.

Vidi il volto di mia madre accanto al letto, le sorrisi e le chiesi un piatto di spaghetti al ragù: era il mio modo per celebrare il ritorno, una sorta di banchetto per ricaricarmi il fisico e l’anima.

Malgrado non parlai a nessuno di quanto avevo vissuto, dentro di me sentivo crescere la consapevolezza di una delle mie missioni terrene: aiutare gli altri a relativizzare e sconfiggere la paura della morte.


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