venerdì 29 giugno 2012

La mia seconda NDE


Il 15 giugno del 2004 era iniziato come un giorno qualsiasi. Dopo il lavoro mi ero recato a casa dei miei genitori per salutarli. Da mesi non stavo bene. E sapevo, o meglio sentivo, che stava per accadere qualcosa, ma non riuscivo a dare una forma a questo pensiero che con insistenza si affacciava alla mia mente. Avevo appena addentato un pezzo di cioccolato (la mia passione!) offertomi da mia madre, quando tutto ad un tratto mi sono sentito mancare. Coma glicemico.

A differenza della prima esperienza vissuta nell’infanzia, questa volta ricordo di essere letteralmente uscito dal mio corpo e di aver visto l’ambiente circostante dall’alto, pur mantenendo una piena consapevolezza di emozioni e sensazioni. Ho vissuto quella che viene chiamata OBE, l’acronimo dell’inglese “Out of Body Experience”, ossia l’esperienza di una persona che per qualche ragione (di solito è stata riferita a seguito di incidenti, di crisi epilettiche, ma può succedere anche spontaneamente durante il sonno o per propria volontà) percepisce se stessa come esistente fuori dal proprio corpo fisico e/o proietta la propria coscienza oltre i confini corporei. Non mi addentrerò per ora nelle complicate e divergenti spiegazioni riguardo a tale fenomeno, ma preferisco iniziare col raccontare semplicemente il mio vissuto.

Sono ancora vividi nella mia mente gli istanti che precedettero il mio ritorno in quel luogo che avevo visto da bambino e in cui mi rifugiavo nei momenti bui della mia vita. Ricordo mia madre dirigersi verso di me, disperata, il pianto di mia sorella e quel suono simile a un ululato, che scoprii provenire dal mio corpo ormai inerte su una sedia, privo di sensi. Avevo la piena consapevolezza di tutto ciò che mi circondava ma vedevo tutto da fuori, dall’alto.

Mentre mia madre piangeva seduta su una sedia e mia sorella, molto scossa, tentava di consolarla, avrei voluto dire loro che stavo bene, di non preoccuparsi… ma non potevano sentirmi. Eppure non avevo paura. Ero sereno. E non ero solo. Accanto a me, oltre ai vivi, percepivo chiaramente altre presenze che però inizialmente non interferirono con me e con quello che stavo “vivendo”.

Vidi arrivare un uomo che indossava gli abiti di volontario della Croce Rossa. Io conoscevo quella persona. Lavorava ai tempi come postino, ma non sapevo e mai avrei immaginato che operasse anche come volontario sulle ambulanze. Quando lo vidi avvicinarsi verso di me, inizialmente non capii nemmeno il suo ruolo in quella circostanza... Seguii l’ambulanza dall’alto, tra il curioso e il divertito. Libero. Fuori dallo spazio e dal tempo

Ero morto? Lo sarei restato per sempre?
Visto e considerato come ero messo, le possibilità di non ritorno erano elevate. I valori della mia glicemia avevano superato ogni ragionevole limite, ma ancora una volta non era il mio momento. E mi risvegliai in un letto d’ospedale.



sabato 23 giugno 2012

Il senso della mia spiritualità

Parlare di spiritualità, oggi, è molto più facile di quanto non avvenisse in passato.
Ho quotidianamente contatto con decine e decine di persone e posso con tranquillità confermare che esiste un crescente bisogno di dare un senso alla nostra esistenza. In questo periodo di difficoltà economica, di crisi dei valori tradizionali, si è sempre più in cerca di altre certezze. Uno degli obiettivi è quello di ritrovare quel senso di appartenenza, non solo alla famiglia, alla comunità, ma all’universo stesso. A prescindere dall’esistenza o meno di un credo personale, sta nascendo in maniera generale una nuova spiritualità.
Spiritualità non significa religione. Non amo questo termine, perché nella sua etimologia sottende non solo un’idea di formalità, quasi di intransigenza, ma anche di riverenza e timore della divinità.
 A mio avviso lo spirito non ha vincoli, per natura è libero e non deve temere Dio, anzi. Dio parla direttamente nel nostro cuore ogni istante e lo fa nei modi più vari, senza bisogno di intermediari.

Per quanto mi riguarda, credo profondamente in Dio e nella sua misericordia. Ma la mia spiritualità è fatta più di fede che di dogmi. Sono infatti dell’idea che le religioni sono opera dell’uomo, non di Dio. Ma la vera “religione” è la religione di Dio, di cui noi siamo parte. Verrà un giorno in cui esisterà un’unica fede e sarà la fede in Dio, senza orpelli e strutture.
Sebbene sia cresciuto in un contesto cristiano e  mi senta cristiano nei valori e nella cultura, capisco i motivi per cui la Chiesa cattolica sta vivendo una profonda crisi: in maniera molto banale, penso che non riesca a stare al passo con le esigenze e i cambiamenti culturali e sociali del nostro tempo.

In un certo senso la New Age ha cavalcato quest’onda già a partire dagli anni ’80. Sotto questo termine sono state fatte ricadere realtà alternative di esplorazione personale della spiritualità: stili di vita, filosofie, fede e religioni, ma anche terapie anima-corpo, magia, esoterismo.
Se all’inizio rimasi colpito da questo fenomeno, approfondendone le dinamiche mi sono accorto del rischio perverso di dipendenza che può creare, soprattutto in chi magari si trova in un momento di forte difficoltà, vuoi spirituale, vuoi emotiva, vuoi personale. Il pregio che riconosco comunque alla New Age è quello di aver richiamato l’attenzione su pratiche terapeutiche alternative alla medicina tradizionale, di offrire spiegazioni e interpretazioni diverse ai classici schemi culturali religiosi e sociali del mondo occidentale, e di basarsi su una forte sensibilità ecologica e ambientalista.
Tuttavia non mi riconosco in nessuna associazione o movimento di questo tipo. Non sono l’unica persona a vivere e aver vissuto esperienze particolari, e non mi riferisco solamente al “ritorno” dalla morte (molte di queste si sono perfettamente inserite in un contesto New Age, nel cosiddetto channelling). 

Preferisco staccarmi da ogni genere di riferimento di questo tipo. Io non ho nulla a che vedere con l’occultismo, al limite sono l’esatto opposto, perché il mio compito non consiste nell’appoggiare “l’occultamento” quanto piuttosto nel rivelare ciò che per tante persone resta ancora “occulto”.

lunedì 18 giugno 2012

Gli Angeli della morte


Grazie alle esperienze che ho vissuto e ad altri racconti di NDE che ho potuto raccogliere, ma soprattutto basandomi sugli insegnamenti ricevuti dalle mie guide, talvolta supportati da letture di altri autori sull’argomento, posso riassumere quello che so o credo di sapere riguardo al passaggio che tutti affronteremo, quello dalla vita alla morte. Cosa ci succede quando si muore?

Inizialmente ci si trova a galleggiare, a gravitare fuori dal corpo, quell’involucro che ha permesso la vita terrena ma che ora non serve più. In quell’istante ricordiamo tutti i momenti positivi e negativi, tutti gli episodi della nostra esistenza. Come in un film, rivediamo e prendiamo coscienza di tutte le nostre azioni e degli effetti che hanno avuto su di noi e sugli altri.
Poi si apre il tunnel, il canale, il ponte che ci porterà verso la Luce.

Come già detto, una delle più grandi paure delle persone, oltre quella di soffrire, è il dover affrontare l’ignoto o anche il nulla (a dipendenza delle proprie convinzioni religiose). In realtà questa paura si trasforma quasi sempre in una sensazione di attesa gioiosa. In quel momento in cui spesso si vivono sentimenti di titubanza e di paura, veniamo infatti accolti da persone conosciute e già defunte, di solito parenti più stretti a cui si era più legati in vita. Queste persone ci sorridono, ci accolgono, ci parlano, tranquillizzandoci. Grazie alla fiducia trasmessa da queste persone, subentra in noi l’interesse, il desiderio di seguirli, di lasciarsi andare nell’Altra dimensione. Il corpo fisico non ci interessa più e viene definitivamente abbandonato.
E così, sostenuti da queste figure familiari che pian piano ci lasciano andare, veniamo catturati dalla Luce.

Ma ecco che, nello stesso momento, possiamo accorgerci che le persone che ci avevano accompagnati, non sono più le stesse, non hanno più le stesse sembianze: la mamma non è più nostra mamma, il figlio non è più nostro figlio… Ma allora chi sono?

Sono i cosidetti Angeli della Morte, ossia spiriti, anime di altre persone defunte, che invece di entrare nella Luce eterna, sono stati incaricati di un altro compito, il più gravoso e importante: quello di aiutare gli altri ad accettare serenamente il trapasso e a raggiungere la Luce. E per fare ciò, prendono le sembianze di persone defunte alle quali siamo particolarmente legate.

Vi è tuttavia da dire che gli Angeli della morte possono entrare in gioco anche prima di questo momento. È infatti uno dei pochi angeli che ha la possibilità di venire anche nell’Aldiquà, avvicinandosi nella vita di una persona tempo prima che questa sia destinata a finire, per affiancarla ed aiutarla in questo percorso.

Sono quindi loro i veri “traghettatori” nell’Aldilà e, malgrado il loro nome, assieme all’Angelo custode, devono essere considerate figure particolarmente amichevoli e di aiuto.

domenica 10 giugno 2012

La mia prima esperienza premorte.


Avevo 6 anni ed ero entrato in ospedale per un intervento così banale da essere considerato di routine. Ma qualcosa andò storto. Per cause che ancora oggi restano poco chiare, il mio fisico sviluppò una reazione allergica all’anestetico. Andai in coma per 36 ore e l’intervento non fu mai eseguito.

Vissi per la prima volta quello che oggi viene denominato un fenomeno di Near-Death Experience (NDE) o più comunemente stato di premorte e che appunto si verifica nei soggetti che, dopo aver subito un trauma fisico o una malattia terminale, sono sopravvissuti.

Numerosi sono gli studi e le indagini sulle esperienze premorte: non è un fenomeno così limitato, anzi. Il 15% dei pazienti rianimati dopo un arresto cardiaco, malgrado un encefalogramma piatto, racconta di esperienza premorte. Queste crescenti testimonianze hanno portato medici, studiosi e scettici a studiarne cause, contenuto e dinamiche. Ciò che si può concludere è che tutti i racconti si assomigliano molto, indipendentemente dal sesso, dall’età, dalla religione, dal livello di istruzione e da precedenti informazioni sulle NDE. L’esperienza classica è la visione di un tunnel con una luce bianca sul fondo, l’incontro con parenti o entità defunti, la visione della propria intera vita o di eventi futuri. Ma vi possono essere anche esperienze extracorporee (dette OBE, Out of Body Experience), con percezione del proprio corpo visto dall’esterno.

Durante la mia prima esperienza premorte, ricordo di essermi trovato nella frazione di un istante in un luogo sconosciuto, un lungo viale in fondo al quale riconobbi un signore distinto, vestito di scuro, accompagnato da un grosso cane nero, forse un alano. Non avevo paura, anzi vivevo la situazione con grande serenità.
In quello spazio fuori dal tempo vidi colori che non appartengono a nessuna scala cromatica esistente, vivi, pieni, luminosi e udii suoni come di musica, che sapevano scuotermi l’animo da dentro, in un turbinio di gioia e nel contempo di pienezza che nella mia esperienza corporea non avevo mai vissuto prima.
Fui rassicurato da questo signore che sarei dovuto tornare, che non era il mio momento. Questo mi tranquillizzò anche se di là la vita di tutti i giorni mi appariva ormai come qualcosa di veramente relativo, una sorta di gioco visto dall’alto o comunque da fuori, qualcosa per cui non valeva la pena disperarsi. Mi dissero anche quale sarebbe stato il mio scopo una volta che fossi tornato e che la mia vita vera sarebbe iniziata al mio ritorno.
Poi nel momento in cui toccai il cane, mi risvegliai.

Vidi il volto di mia madre accanto al letto, le sorrisi e le chiesi un piatto di spaghetti al ragù: era il mio modo per celebrare il ritorno, una sorta di banchetto per ricaricarmi il fisico e l’anima.

Malgrado non parlai a nessuno di quanto avevo vissuto, dentro di me sentivo crescere la consapevolezza di una delle mie missioni terrene: aiutare gli altri a relativizzare e sconfiggere la paura della morte.


lunedì 4 giugno 2012

Perché la morte fa paura?


Il modo con cui ci rapportiamo alla morte influisce fortemente sul modo in cui affrontiamo la vita stessa. È più facile dare un senso a questa vita se riusciamo a dare un senso anche alla morte, non soltanto come la fine di un’esistenza ma come una rinascita in un’altra dimensione.
Al di là della mia esperienza e dei miei doni che mi permettono di essere personalmente convinto di una vita ultraterrena, mi piacerebbe poter provare a chi mi ascolta e non mi crede, che effettivamente è così!
Non si tratta di un discorso teorico o sovrannaturale fine a se stesso. L’approccio all’idea della morte non riguarda soltanto il modo in cui ci confronteremo con il “dopo”, ma anche come affrontiamo il presente, il “qui e ora”. Credere o anche soltanto prendere in considerazione una vita dopo la morte può infatti aiutare a superare molte difficoltà che la vita stessa ci riserva. Mi riferisco a un lutto di una persona cara, ad esempio. O a una malattia mortale. Comprendere e accettare, senza creduloneria, una vita oltre la soglia, offre gli strumenti per gestire ed elaborare questi momenti particolarmente difficili, trovando delle risposte dentro di se, che ci confortano l’animo. E dunque a vivere più serenamente.
Resta comunque il fatto che la paura non è sempre facile da allontanare. A parole è chiaro, ma quando ci si trova in certe circostanze è complicato rimuovere i timori. Ho conosciuto persone che semplicemente si rifiutano di parlare della morte, quasi fosse un fatto che non le concerne e non le concernerà mai. È raro incontrare persone che parlino del morire, soprattutto in relazione a se stesso o ai propri famigliari, come un avvenimento naturale. La maggior parte di noi fugge il discorso, addirittura c’è chi concretamente fugge di fronte alla malattia incurabile o a uno stadio terminale di un proprio conoscente o amico, quasi fosse contagiosa. O semplicemente perché non si sa cosa dire, come affrontare l’argomento.
Il mondo che ci circonda non insegna a morire. Tutto è fatto per nascondere la morte, per indurci a vivere senza pensarci, in una continua tensione verso sempre nuovi progetti e obiettivi da raggiungere nel campo dei valori materiali. Ma se ci pensiamo bene, la paura è unicamente dettata dal non conoscere e da un'immaginazione negativa della realtà. Non la morte in sé, ma il non sapere che cosa ci sia dopo e il timore che con l’ultimo battito si esaurisca tutto. Se così fosse la vita stessa perderebbe di significato.
Sono convinto che ciò che muore è unicamente l’involucro del nostro essere, quello che ci è stato donato (o forse prestato) per vivere la vita terrena e con il quale ci siamo identificati. Ma la nostra essenza, la nostra anima, non muore come noi lo intendiamo.